Nel panorama odierno dei social media, le bacheche sembrano trasformarsi sempre più spesso in arene, con tifoserie schierate e pronte a scagliarsi l’una contro l’altra. I commenti, concepiti come strumenti di dialogo e discussione, vengono utilizzati come bandiere da sventolare nel tentativo di affermare la propria ideologia. Ma cosa spinge milioni di persone a credere che le loro opinioni, spesso superficiali, possano davvero incidere su un argomento complesso? Siamo forse vittime di un’illusione collettiva riguardo al valore di ciò che scriviamo?
Le opinioni ideologicizzate, ancorate a convinzioni rigide e preconcetti, spesso non sono altro che una forma di tifo da stadio: un coro in cui l’obiettivo non è capire meglio, ma confermare se stessi e la propria appartenenza a un gruppo. Non si cerca un confronto, né una crescita personale, ma si punta semplicemente a prevalere. L’opinione diventa una sorta di slogan, ripetuto in maniera incessante per assicurarsi che la propria visione, per quanto parziale o limitata, sia percepita come l’unica verità possibile.
Questo atteggiamento di chiusura impedisce alle persone di sviluppare una visione approfondita degli argomenti di cui parlano. Viviamo in un mondo dove le informazioni sono più accessibili che mai, eppure il livello di riflessione su molti temi resta sorprendentemente basso. Non è raro imbattersi in commenti impulsivi, privi di qualsiasi fondamento, che vengono lanciati in risposta a post, articoli o contenuti che minacciano il fragile castello di credenze su cui si basa la visione del mondo del commentatore. Invece di fermarsi e riflettere, di mettere in discussione ciò che si crede di sapere, si preferisce scrivere di getto una frase infarcita di certezze, convinti che questo basti per “puntellare” una visione del tutto approssimativa della realtà.
Questa dinamica non è solo dannosa per la qualità delle discussioni online, ma è anche una manifestazione preoccupante di una società che ha perso il contatto con il concetto di dubbio. L’assenza di dubbi è diventata una virtù, l’incrollabile sicurezza una bandiera da esibire per essere riconosciuti come parte di un certo gruppo. In questo contesto, chi osa chiedere “e se mi stessi sbagliando?” viene spesso ignorato, ridicolizzato o etichettato come indeciso. Eppure, la curiosità e il dubbio sono da sempre il motore dell’apprendimento e della crescita personale.
I social media, con il loro ritmo frenetico e l’algoritmo che premia il conflitto e la polarizzazione, creano l’illusione che ogni commento abbia un valore intrinseco, che ogni opinione, anche la meno informata, sia meritevole di essere ascoltata e difesa a spada tratta. Questa è l’assurda convinzione che sta alla base del nostro comportamento online: l’idea che scrivere un commento, per quanto povero di sostanza, significhi effettivamente contribuire a una conversazione globale.
La verità è che il valore di un commento non risiede nella sua capacità di gridare più forte degli altri, ma nella sua capacità di aggiungere qualcosa di significativo alla discussione. Un punto di vista che nasce da una riflessione sincera, che tiene conto della complessità di un argomento e che ha il coraggio di considerare le sfumature, è infinitamente più prezioso di mille urla ideologiche. Ma questo richiede tempo, impegno e soprattutto umiltà: qualità che spesso mancano nel dibattito frenetico e superficiale dei social media.
Per uscire da questo circolo vizioso, dovremmo forse ricordarci che avere un’opinione non significa automaticamente aver ragione, e che esprimere un pensiero non significa necessariamente contribuire positivamente a una conversazione. Se riuscissimo, anche solo per un momento, a sospendere il nostro bisogno di essere ascoltati e a dedicare più tempo ad ascoltare davvero, potremmo forse riscoprire il vero valore del dialogo. Un dialogo fatto non di slogan e di grida, ma di parole che cercano, senza la presunzione di sapere già tutto.